Carnevale nelle tradizioni magiche

 

CARNEVALE
tra storia, simbolo e tradizione


Febbraio, carnevale, «Il periodo che precede la quaresima, durante la quale si doveva lasciare la carne e far rigorosa penitenza. Periodo dedicato ai divertimenti, secondo una tradizione che risale all’età medievale». Questa, oggi, la definizione di un autorevole Dizionario italiano. Né essa cambia granché in altro Dizionario italiano del 1852, dove, tuttavia, è registrata la voce “carnovale”, la quale rimanda a “carnasciale”, dov’è chiaramente evidente il concetto di “scialo”, deverbale di “scialare”.

Anche per questo, sembra che il discorso sulla nostra festa popolare, prim’ancora che alla civiltà cristiana, debba rapportarsi a pratiche magico-religiose di civiltà ben più remote.

Anticamente, per esempio, anche allora nel mese di febbraio, sacerdoti pagani che in Roma si chiamavano “Luperci” celebravano la festa in onore di Fauno, dio dei boschi. E siccome Fauno, 
ninfa e fauno

alla stregua del dio greco Pan, era difensore delle greggi contro i lupi, aveva avuto dai romani l’appellativo di “Lupercus”. Dunque, i “luperci”, nell’occorrenza dei «Lupercalia», le festività in onore del dio, facevano la processione alla sua grotta sul Palatino, nella quale, secondo la leggenda, la lupa aveva allevato Romolo e Remo. 

Fauno, inoltre, per quanto qui ci riguarda, era rappresentato come un personaggio
sbarazzino ma particolarmente seducente, al punto che le ninfe s’innamoravano di lui. Per di più, a guisa di vero e proprio «munaciello», egli amava farsi burla e spaventare i pastori nei boschi; inoltre, si trasformava ora in folletto, ora in spiritello, e s’intrufolava di soppiatto nelle case per far mille dispetti.
Tutto questo già dice che egli aveva i caratteri di una maschera vera e propria. 

Da notare che, più o meno, questi erano i connotati che Fauno aveva in comune col dio greco Pan. I greci, fra l’altro, per simulare scenicamente i diversi tipi umani, avevano utilizzato un’apposita maschera che chiamavano «pròsopèion», donde prosopopea, oppure «mormolùkeion», molto simile al nostro mammalucco. Tale maschera, poi, dai romani fu chiamata «persona» in quanto serviva per intensificare il suono della voce dei figuranti; essa, infatti, era una specie di casco tutto chiuso, salvo l’apertura in corrispondenza della bocca, attraverso la quale la voce dell’attore, essendovi tutta e unicamente convogliata, usciva alquanto amplificata conferendo imponenza al personaggio. 

Molte di tali usanze drammaturgiche, chiaramente, provenivano da preesistenti riti orientali.
Ma, quanto all’archetipo del moderno carnevale, c’è anche da dire che i romani, un poco alla volta, avevano eretto Fauno ad idolo di una festa speciale, durante la quale, fra riti curiosi e preghiere d’espiazione, la gente si dava a scomposti banchetti a base di carni di ovini sacrificati, con l’aggiunta di vino e miele; per l’occasione, poi, al bestiame si dava libertà di vagare pei campi, e agli stessi schiavi si concedeva di godersela a piacimento. 

Durante la festività, inoltre, anche le donne maritate, nientemeno che le austere matronæ romane, accedevano volentieri a un singolare rito. I sacerdoti del dio, infatti, lacerate le pelli di un capro appena sacrificato, ne ricavavano succinti indumenti, una sorta di mantesino napoletano, che essi indossavano officiando la cerimonia; quindi, con corregge ritagliate dalle medesime pelli, percuotevano le pie donne, le quali, a guisa di scapillate, mostravano di gradire il sacro trattamento, convinte, o forse con la scusa, che esso propiziasse la felicità coniugale. 

Tal ultima credenza richiama vagamente ad una pratica magica, parimenti dolorosa e insieme festosa, ma alquanto più vicina a noi nel tempo: alludiamo al “Carnevaletto delle donne”. 

Nei tempi passati, infatti, quando nel nostro meridione imperversava una strana malattia nervosa attribuita al morso della tarantola, il rimedio era unicamente riposto in una sorta di danza scomposta 
tarantolata

che la donna tarantolata, a guisa d’antica menade, intonava al ritmo di “castagnette” e zampogne. 

Quanto, poi, al mese in cui cade il carnevale, da notar che la predetta correggia caprina, con cui le antiche matrone si lasciavano percuotere dai sacerdoti, si chiamava «februum», e il giorno della festa espiatoria era detto «dies februatus», per cui il mese del fatidico avvenimento fu chiamato «Februarius». Come si vede, considerata la confusione tra l’elemento magico-religioso e quello profano e godereccio della festa, si trattava già allora di una sorta di carnevale, che per i
romani cadeva il 15 febbraio, e del quale son tuttora evidenti diverse permanenze simboliche. 

Per esempio, oltre a quanto già evidenziato per le feste in onore di Fauno, anche il rito del capro espiatorio sopravvive oggi nell’usanza di dar fuoco al fantoccio che impersona il carnevale. 

Tal usanza sembra collegata all’altro rito ctonio che la precede di poco, il cosiddetto «fucaróne ’e Sant’Antuóno», che probabilmente è permanenza simbolica dell’antica «ambarvalis hostia», ovvero la «vacca alba ad foculum immolata», dopo che i dodici sacerdoti arvali (Fratres arvales) l’avevano portata in processione propiziatoria intorno ai campi fra riti purificatori fatti con vino ed incenso.

Quanto al capro espiatorio dei romani, invece, tutti sanno che esso non solo aveva avuto a che fare con quello della tragedia greca, ma anche con quello, ben più antico, della tradizione biblica, con particolare riguardo al Levitico, dove frequenti sono i riferimenti al «montone per l’olocausto», a «un montone per il sacrificio pacifico», o anche al «capro per il sacrificio in espiazione del peccato».


Presso i romani, però, esistevano anche altre feste in maschera, sempre attinenti alla sfera religiosa.
Per esempio, i Baccanali si celebravano in onore di Bacco, che i greci chiamavano
Dionìso, il dio del vino scaccia-pensieri che propizia benessere e giovialità. Anche queste feste erano interpretate da “iniziati” in maschera, i quali «præter insanos ritus, omnibus se vitiis polluebant», insomma i partecipanti non solo facevano riti forsennati, ma s’abbandonavano a gozzoviglie ed orge a dir poco licenziose, tanto che a un certo punto il senato romano dovette intervenire con un’apposita legge. 

C’erano, poi, i Saturnalia, festività anch’esse religiose, ed anch’esse derivate dai più antichi «crònia» greci, che si facevano in onore di Saturno, e che potevano durare anche una settimana in assoluta spensieratezza, tra baldoria, gozzoviglie, stravizzi e riti orgiastici; abiti anche qui oltremodo succinti; i padroni si fingevano servi e i servi padroni, perché - si diceva - ai tempi di Saturno vigeva una sorta di comunismo che escludeva il concetto di schiavitù.

Da qui venne il proverbio latino «Non sempre erunt Saturnalia», non è sempre la festa di Saturno, ovvero, come diciamo noi, «A carnevale ogni scherzo vale»,perfino che i servi diventino padroni. 

In buona sostanza, come par di capire, già per i romani tal genere di feste, pur provenendo da tradizioni straniere già allora antiche, avevano carattere popolare e matrice religiosa; ma avevano anche lo scopo pratico di ritemprare le energie fisiche, ovvero “carnem exhalare”, espressione che a fine ’200 diede origine a “carnascialare”, ricreare la carne nel senso di ritemprare il corpo, scaricando le cure e gli assidui travagli quotidiani (altri invece, senza che tuttavia se ne alteri il
significato, intende “carnasciale” da carnem laxare, di cui è traccia nel padovano “carlassare”, o nel rumeno “lasare de carne”). 

Questo carattere, magico-religioso ed orgiastico insieme, contraddistinse la festa fino all'avvento del cristianesimo, la cui azione modificò radicalmente in senso spirituale l’essenza direttiva di taluni riti pagani. 

A tal riguardo, utile ricordare, per esempio, che l’uso del termine
“carnevale” risale al XIII secolo, quando certe pratiche devozionali prevedevano l’utilizzo di un particolare carro, che per la sua imponenza veniva detto “carrus navalis”, un carro di legno su ruote, che si portava in giro durante le processioni festive nei paesi d’area cristiana.

Appunto dal medievale “carrus navalis” derivarono, tanto per fare esempi a noi vicini, anche quei carri devozionali nostrani che abbiam potuto osservare fino a pochi decenni fa, come il Carro di S. Antonio, il Carro di San Giovanni, il Carro di Sant’Erasmo, il Carro di Materdomini, il Carro di Montevergine, od altro ancora. 

Un “carrus navalis”, per esempio, è documentato nell’anno 1130 in uno scritto di Falcone Beneventano, il quale descrive una solenne traslazione di reliquie di santi, per la quale fu allestito un particolare “carro” di legno.
Chiaramente, quel “carrus navalis” non era altro che figura di nave sotto forma di carro.

Or si sa che, fin dai tempi più antichi, e presso le civiltà più disparate, la
“nave” fu strumento e simbolo di viaggio esperienziale di tipo mistico-salvifico. In tal senso, sempre per fare un esempio a noi presente, basti pensare al valore simbolico di quel particolare “carrus navalis” che è la “barca” nella festa nolana dei gigli. 

Naturale, quindi, pensare che l’attuale carnevale, celebrandosi generalmente con i
tradizionali “carri” allegorici, è da considerare erede diretto, seppur secolarizzato, dell’antico “carrus navalis”, espressione poi sincopata in “car-navalis”, come si chiama la nostra festività che, considerata sotto il profilo religioso, prelude alla penitenza solenne della Quaresima, che propizia la rinascita dello spirito, a sua volta rappresentata dalla Pasqua di Resurrezione.

E proprio perché carnevale prelude al digiuno quaresimale, è stata possibile in via analogica la contaminazione del suo etimo, che solo semanticamente riteniamo possibile riportare a «carnem levare», “abolire la carne” come alimento, insomma far penitenza in vista della ri-nascita spirituale, il che s’evince anche da altre accezioni lessicali, come il piemontese “carlevé”, il pisano “carnelevare”, il siciliano
“carnilivari”, lo spagnolo “carnes tolendas”. Da quest’ultimo punto di vista, già i digiuni biblici, e i quaranta giorni di penitenza del Battista nel deserto, prefiguravano la Quaresima che prelude alla Pasqua. 

A questo punto, però, è da dir che, col tempo, nonostante il significativo scarto etimologico fra i due termini, carnevale è diventato sinonimo di carnasciale, e questo testimonia che a un certo momento nella festa è tornato a prevalere l’elemento pagano dello “scialo”. 

Già nel secolo XIII, infatti, i cosiddetti Carmina Burana esaltavano il vino e il gioco,
l’amore e la taverna, e non è escluso che proprio nell’ambito di tal tradizione goliardica, scanzonata e anticlericale, nascesse tal quale l’espressione latino-volgare «Carne, vale!», e non certo nel senso penitenziale di «Addio, carne», ma in quello dissacrante di «Salute con la carne!», insomma «Viva la carne!», tant'è che è passata in proverbio l'espressione «'A carne fa sango».

Con tutto ciò, fuor di dubbio che il carnevale si secolarizzò compiutamente nel corso del ’400, quando in Firenze spuntarono centinaia di canti popolari di sapore epicureo, di tono spregiudicato e vivace, spesso scurrile, concepiti per rallegrare proprio le feste di carnevale e le mascherate popolari, perciò detti “canti carnascialeschi”, perché in essi tornava l’invito goliardico di «Carne a scialo!». 

Fu appunto sullo scorcio del ’400, per esempio, che anche Lorenzo dei Medici,
ragguardevole uomo di stato, scrisse quella «bizzarra mascherata», meglio nota col titolo di Trionfo di Bacco e Arianna.
In quella ballata, non a caso, la maschera pagana del dio Bacco, contornato da «Questi lieti satiretti Delle ninfe innamorati», e da «Donne e giovinetti amanti», ritornava trionfante sulla scena rediviva degli antichi baccanali, invitando a godersi la vita, perché «Quel c’ha a esser, convien sia… Di doman non c’è certezza… Ciascun suoni, balli e canti… Chi vuol esser lieto sia: Di doman non c’è certezza».

E questa, ancor oggi, o forse soprattutto oggi, sembra essere la filosofia sottesa alla festa, tant’è che, dice Pratolini, «impazza per le strade il carnevale».


(Pubblicato in Carnevale Savianese - Annuario 2002-2003, a cura di Raffaele Grilletto, Saviano, Febbraio 
2004, pp. 9-14 )